James Blake è una creatura polimorfa dai contorni sfumati di soli 22 anni; produttore, musicista e DJ, direttamente from London. Inizia a suonare il pianoforte all’età di sei anni e studia musica popolare alla Goldsmith University. Scopre la musica elettronica grazie alla passione per il duo Digital Mystikz. Di lui si parla in maniera ridondante già dal 2010, quando comincia a sfornare un Ep dopo l’altro (The Bells Sketch, CMYK eKlavierwerke).
Il disco in questione invece è stato diffuso molto prima della sua stessa uscita ed ha destato immediatamente l’attenzione. C’è un filo conduttore tra tutti gli Ep e questo album, che fa pensare ad una strategia di mercato, come se in realtà fosse pronto già da tempo e si aspettasse solo il momento più redditizio per farlo uscire. È stato tutto cronologicamente perfetto tra un Ep e l’altro, fino all’exploit con la cover di Feist “Limit To Your Love” sganciata ad hoc qualche mese fa per promuovere il lancio di questo primo long playing.
Ma a noi poco importa il marketing o l’alone di mistero che pervade questo individuo, che non toglie nè aggiunge nulla alla sua singolare composizione. Alienante, vicino al soul diAntony Hegarty ed essenziale, simile al minimalismo degli XX, dotato della creatività e del genio di Thom Yorke, James Blake non poteva emergere in maniera più eclatante. Si parla già di post-dubstep, di future-garage; la BBC e Pitchfork lo acclamano e qualcuno sostiene già che il Mercury Prize quest’anno andrà dritto nelle sue preziose mani, mentre l’Italia si divide in due, come sempre.
Questo disco è una cabina pressurizzata, una chiusura stagna che sigilla le vibrazioni ed il loro fluire dentro il corpo, mentre fuori tutto scorre privo di alcuna alterazione. Con James Blake ci si immerge in sabbie mobili cupe, potenti e sintetiche che ti attraggono in un bagno caldo ed emozionalmente autistico.
Un disco dove finalmente il silenzio trionfa, sovrano, senza futili dilatazioni, spezzato solo da algide spigolature che raffreddano la percezione e scandiscono l’incandescenza sonora, inumana, generando contrasti tra essi e la sua stessa voce che dà fiato a vuoti abissali ed irregolari.
“I don’t know about my dreams. I don’t know about my dreamin’ anymore. All that I know is I’m fallin, fallin, fallin, fallin. Might as well fall in”, così recita “Wilhelms Scream”, un urlo spirituale che proviene dallo stomaco, una discesa in caduta libera che precipita lentamente nei sogni, quasi “Like a waterfall in slow-motion” come succede in “Limit To Your Love” che rende benissimo l’idea. Ed ancora, come non essere attratti dalle elucubrazioni mentali ed ossessive di “I Mind”?
Un ascolto sensuale ed orecchiabile anche per chi non ama il genere, difficile che il suo cross over vi lasci indifferenti. Un’anima la sua che trasmigra sù e giù per la gola e si incarna attraverso le falangi, che sono state in grado di regalarci questo disco straordinario.
Vale
Recensione pubblicata su Shiver Webzine
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